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Aptonomia …il con-tatto

Se qualcuno avesse il cattivo gusto

di fare dell’ironia sulla medicina delle cure palliative,

presentandola come la medicina del tenere la mano,

gli si ricordi che il contatto fisico

è il primo dei bisogni dell’essere umano quando viene al mondo:

nessun stupore che sia anche l’ultimo a scomparire.

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La maggior parte dei comportamenti e degli atteggiamenti empatici sono non verbali; tra questi i gesti, che possono essere funzionali, espressivi o di conforto, rivestono un ruolo fondamentale. Il contatto fisico, reale, con il paziente ha il potere di comunicare sensazioni.

Il comportamento comunicativo realizzato attraverso il tocco che procura sollievo e che sostiene, è considerato essenziale nel prendersi cura dei malati di cancro. Il tocco, infatti, sembra giocare un ruolo importante nell’incontrare i bisogni cognitivi e affettivi dei pazienti[1].

Il lavoro di chi assiste richiede un uso consapevole dei sensi, in particolare del contatto corporeo. La mano di chi assiste può divenire così “orecchio psico-tattile”, in ascolto del bisogno dell’altro[2]. I gesti principali di questa mano, che comprendono movimenti funzionali, espressivi o di conforto, producono nella persona un aumento delle risposte positive, sostengono la sua vulnerabilità fisica ed emotiva.

Una mano prudente e rispettosa, che sa toccare comunicando, stabilisce diversi gradi di empatia a seconda del bisogno della persona, le conferma che si ha cura di lei. Il linguaggio del corpo è il punto chiave nell’assistenza al morente. La naturalezza e la sapienza affettiva espressa da chi cura diventano il veicolo di un linguaggio che, se attraversato dall’amore, può accogliere il corpo ferito e restituirgli la sua identità, la sua dimensione umana”[3] La comunicazione attraverso il contatto è la forma di comunicazione più remota, ancestrale, vissuta e sperimentata da ciascuno quando eravamo bambini: silenziose domande e bisogni rivolti al mondo circostante ricevevano come risposte sensazioni di appagamento o frustrazione, di gioia o di dolore.

Purtroppo da adulti questa competenza comunicativa e percettiva non sempre ci appartiene consapevolmente. La scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto, definita da Marie de Hennezel, in un seminario su “L’approccio psico-tattile del morente”, come aptonomia (dal greco hapsis, “tocco” e nomos, “regola”) inizia con Frans Veldman, medico olandese.

Principalmente applicata al rapporto tra genitori e figlio, alla nascita e nel periodo post-natale, il suo utilizzo è stato esteso alla fase terminale della vita.

L’aptonomia, in quanto scienza dell’affettività, ci insegna come un contatto definito psico-tattile sia in grado di restituire alla persona, anche morente, ciò di cui ha bisogno: la percezione della propria integrità, la riconferma del valore, della dignità, dell’unicità della propria persona, attraverso un contatto confortante, rassicurante, confermante ciò che  l’altro è.

L’aptonomia non è una tecnica ma un modo di essere, e trova uno spazio ben preciso nell’ambito dell’équipe multidisciplinare di cure palliative, che agisce in quella fase in cui non si può più guarire ma si può ancora fare molto per la persona malata.

Lo spirito comune dell’équipe poggia su quattro cardini: la morte è un evento naturale, non una sconfitta; il tempo del morire non è un tempo «vuoto» ma ha un grande valore; non si può evitare a qualcuno di morire o di sperimentare il lutto, ma e possibile esserci, ascoltare, accompagnare; la morte disumana è quella vissuta senza scambi, nella solitudine e nell’abbandono.

L’infermiere è tra i pochi professionisti autorizzati a toccare, anche se il contatto fisico, come parte della pratica assistenziale, ha iniziato a scomparire negli ospedali quando la gestione del tempo e la tecnologia hanno assunto priorità rispetto al “contatto” individuale con il malato.

L’infermiere, insieme all’operatore socio-sanitario e al medico, diviene colui che più di ogni altro tocca il malato: ogni azione assistenziale, ogni gesto di cura instaura un contatto intimo con il corpo.

Tocchiamo, infatti, il corpo e la psiche del malato, esponendoci a un rapporto intimo e intenso. Possiamo inviare messaggi di vicinanza o distanza, di disponibilità o chiusura, di rassicurazione o insicurezza.

Il toccare presuppone fiducia, che va costruita insieme, pazientemente, amorevolmente, e che è il contrario della paura”7

“Toccare è scoprirsi fiduciosi sul versante dell’intimità: non si può toccare senza essere toccati”.

I risultati del caring touch sono documentati in letteratura e sembrano produrre:

  • miglioramento del comfort
  • sicurezza
  • innalzamento dell’autostima[1]
  • sviluppo di sintonia col paziente[2],[3]
  • accoglienza del paziente come persona unica10,[4]
  • miglioramento dei sintomi fisici e psichici

 

[1] Boyek K, Watson R., A touching story. Elderly Care 1994

 

[2] Tommasini NR. The use of touch with the hospitalized psychiatric patient,.Archives of Psychiatric Nursing, 1990

[3] Routasalo P, Isola A., The right to touch and be touched, Nursing Ethics, 1996

[4] Morales E., Meaning of touch to hospitalized Puerto Ricans with cancer. Cancer Nursing 1994

 

 [2] Marsaglia C, Galizio M., I gesti della cura. Oltre le mani. WorkShop presso Hospice Casa Madonna dell’Uliveto, Aprile 2002.

 

[3] Mancini Rizzotti A., In compagnia del morente e delle nostre emozioni. Janus 2002;

 

grazie a

Studenti:  Paola Del Signore

Alvaro Iori

Michelangelo Leone

Università di Tor Vergata – Roma

Laurea Specialistica 1° anno

2007/2008

 

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